Fabbrica Treviso

Blog di Stefano Dall'Agata


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Nel nome del “papi”

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO

Numero 395 del 5 dicembre 2010

Maria G. Di Rienzo: Nel nome del “papi”

Credo si debba dar credito di almeno una cosa alla Ministra Gelmini: pur facendo malissimo il suo lavoro, in una sola frase è riuscita a fotografare il “pensiero dominante” degli ultimi trent’anni italiani. Guardando dalla finestra, per così dire, la signora è sconcertata dal vedere pensionati e studenti protestare insieme. Che hanno a che fare gli uni con gli altri?, si chiede basita, Che interessi comuni possono avere?

Nel supermercato della giungla infatti, dove la Ministra vive e dove il suo governo pascola, tutti si vendono e/o comprano altri, ed ognuno è solo sino alla disperazione, perché chiunque si trovi accanto – se non è un oggetto da usare o un potente da agganciare – è un competitore, un ostacolo, un fastidio. Gli italiani non si sono tirati indietro: sulla base degli esempi e degli impulsi forniti dagli uomini e dalle donne “di successo”, incoraggiati dalla propaganda ossessiva dei media, abbagliati dai premi forniti alla disonestà e alla cialtroneria, hanno contribuito ad alzare il livello di violenza nel paese senza pensare che sarebbe ricaduto su di loro. Hanno giustificato ogni iniquità propria e altrui esattamente sul fondamento di una solitudine egoista. Ma singolarizzati non si vive.

Se l’ambiente è un terreno di caccia e sfruttamento l’immondizia si accumula sulle tue strade, il tuo fiume straripa, le tue case crollano, le varie patologie da inquinamento fanno ammalare ed uccidono te e i tuoi figli. Se le scuole sono aziende che devono produrre profitto, e parcheggi per i ragazzi in attesa che trovino da fare gli idioti in tv, è perfettamente normale che il bullismo sia esploso come un fungo atomico. Quando le donne non possono essere viste e rappresentate se non come imprenditrici del sesso a pagamento, hostess da tavolo, cigni da cubo, vassoi viventi e “talenti futuri”, ecco cosa aumenta: violenza domestica, violenza sessuale, disturbi dell’alimentazione nelle adolescenti, molestie sul lavoro (abbiamo il record europeo in quest’ultimo settore). Ed ecco cosa accade quotidianamente: bambine di quattro anni vestite come porno star fanno balletti “sexy” nel giorno del loro compleanno o nel cortile dell’asilo, bambini delle elementari – tutti o quasi “fidanzati” con coetanee – cercano pornografia su internet, studenti delle medie molestano pesantamente le compagne in classe, quando non le stuprano nei bagni, sotto gli occhi indifferenti degli insegnanti. Questi sono tutti episodi di cui io ho conoscenza diretta. Soli, ipersessualizzati, violenti e senza orizzonte: dai quattro anni in poi gli italiani e le italiane sembrano avere quest’unica prospettiva.

Di recente se n’è accorto anche il Censis (44° rapporto annuale sullo stato dell’Italia, dicembre 2010), definendo l’Italia “una società senza regole e senza sogni” attraversata dal “gusto apatico di compiere delitti comuni”. Il suo presidente De Rita ha rilasciato al proposito coltissime dichiarazioni piene di “auctoritas” e di “sregolazione pulsionale”, ma di fronte alla richiesta di rimedi si è rivelato un po’ meno profondo. Cosa possiamo fare, dunque? Preoccuparci del “padre che evapora” (santo cielo, abbassate i termostati!), quindi “ridare senso alla figura paterna” e “alla dimensione sociale del peccato”, ripartendo da un “desiderio” che nasca dalla “mancanza”. Il rapporto rileva con giusta perplessità i bambini affogati in giocattoli che neppure hanno chiesto e la mezza dozzina di cellulari a cranio italico, ma provate a portarglieli via e vedremo come il desiderio nato dalla mancanza si esprimerà: non si tratta solo di quante cose si hanno, signor presidente, ma di a che servono, di chi le usa e come le usa e per quali motivi, perché di fatto esse hanno sostituito le relazioni sociali e definiscono il posto nel mondo – il “successo”, il valore – di chi le possiede.

Giuseppe Roma, direttore del Censis, contribuisce: ripartiamo dal singolo, invoca, per ritrovare “impulsi vitali” ed “energie positive”. No, grazie: al “singolo” (uno contro tutti nella competizione globale) ci siamo già. E’ la coscienza che il singolo esiste all’interno di un sistema di relazioni che manca, è la consapevolezza che ogni individuo umano è stato portato all’esistenza da una relazione che manca, e che il nostro stesso pianeta è una rete di relazioni viventi. E’ il riconoscere che viviamo grazie alla cooperazione, non grazie alla competizione, che manca. Quanto al desiderio di un “padre” che ci metta a posto fomentando in noi l’idea del peccato e strapazzandoci per farci rigare diritto lo rispedisco al mittente: ciò che i signori del Censis hanno osservato con le lacrime agli occhi è esattamente il prodotto estremo e spettacolarizzato della “legge dei padri”, il patriarcato.

Quando Mister “Ghe pensi mi” (l’attuale capo di governo) metteva in fila le cameriere nelle sue ville per dar loro lo sculaccione augurale, affinché quel giorno lavorassero bene e nessuna piega si formasse sulla tovaglia per gli ospiti, non stava facendo altro che il suo lavoro da padre-padrone e quasi nessuno – oltre a me – lo ha trovato ignobile; quando assieme ai suoi lacchè ha sponsorizzato la pagliacciata del “Family Day”, delegittimando ed insultando la mia, di famiglia, perché “sregolata” e “non tradizionale” (come non è “tradizionale” la maggioranza delle famiglie italiane), il padre-padrone si sentiva perfettamente in regola circondato da prelati, beghine, le sue due famiglie ed il corteggio di amanti a pagamento: è “tradizione”, infatti, che il patriarca possa concedersi ciò che ai comuni mortali è negato; quando le suddette dame di compagnia sessuale gli chiedevano favori (risolvimi l’abuso edilizio, prestami l’avvocato da talk show per i miei problemi legali, trovami un posto in tv o da parlamentare: e quelle che hanno sollevato i veli dell’ipocrisia lo hanno fatto solo perché non hanno ottenuto ciò che volevano) stavano ridando pieno “senso alla figura paterna”, quella del “tradizionale” padre onnipotente che dà e toglie a suo capriccio, che ha piena potestà sulla figliolanza reale e simbolica, e che è autorizzato ad usarla per il proprio godimento: fra i figli, quindi, deve scatenarsi la lotta più implacabile per ottenere i favori del padre, eliminare gli avversari, e infine prenderne il posto.

In questo quadro, lo stupore ministeriale che citavo all’inizio (“Che interessi comuni possono avere pensionati e studenti?”) è perfettamente logico: ognun per sé e dio per chi può pagarlo con le regalie alle scuole private, mentre quella pubblica affonda. So che la Ministra non leggerà mai la spiegazione che sto per fornirle, e che quand’anche ciò accadesse probabilmente non riuscirebbe (ancora) a capirla, tuttavia eccola qua: pensionati e studenti, lavoratori e attivisti sociali, stanno cominciando a ricordare di essere umani, e che sono umani solo grazie al fatto che altri esseri umani li hanno messi al mondo, hanno avuto cura di loro, si preoccupano per loro, li amano. Se al Censis non hanno le fette di “papi” sugli occhi dovrebbero accorgersi che tutto questo ricorda molto di più l’agire di una madre (o di un padre nient’affatto “tradizionale”). Una madre che non ti indica l’inferno più o meno trascendente – il “senso sociale del peccato” – ma un quotidiano esistere fatto di buone relazioni, di negoziazioni, di condivisione di abilità e risorse, di responsabilità e rispetto, come sistema per vivere meglio, insieme, tutte e tutti. Se vogliono prove di quanto dico, è probabile che non debbano guardare più lontano di casa propria. Maria G. Di Rienzo


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Di cos’è fatto il buio

di Maria G. Di Rienzo

(testo della presentazione del romanzo “Nostra Signora della Luce” alla Fiera della Microeditoria di Chiari, 13.11.2010)

Come ho immaginato una delle protagoniste, grazie a questo disegno

 

“Nostra Signora della Luce” è essenzialmente un’anti-utopia, classificabile nella fantascienza post-catastrofe. Voi sapete che “utopia” significa “non-luogo”, ma il significato attuale del termine – non solo per quanto riguarda la letteratura – è “luogo buono”, o “luogo perfetto”, dove i problemi del tempo presente sono stati risolti; un’anti-utopia, per contro, può condurre all’estremo i problemi del tempo presente e mostrarci il peggiore possibile dei mondi.

L’utopia e l’anti-utopia sono sempre state usate come forma immaginativa della critica sociale: sembrano distantissime dalla realtà, ma di solito sono una sfida di chi scrive all’assetto presente in cui si trova. Per le donne in particolare, sin dal 1600, scrivere utopie o anti-utopie è stato il poter dare voce a sogni e pratiche di libertà. Il fantastico femminile di questo tipo fornisce, infatti, un’esperienza di lettura trasformativa, e cioè rende ad esempio i lettori consci delle strutture del genere e delle metafore concettuali che le sostengono: abilita quindi i lettori a mettere in questione le cosiddette “verità” quotidiane su cosa sia essere uomini o essere donne. Continua a leggere


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Campagna dei 16 giorni

dal blog lunanuvola

16 GIORNI DI ATTIVISMO CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE

25 Novembre – 10 Dicembre 2010

La Campagna dei 16 Giorni di Attivismo Contro la Violenza di Genere è una campagna internazionale attiva dal 1991. Le due date, 25 novembre (Giornata internazionale contro la violenza sulle donne) e 10 dicembre (Giornata internazionale dei diritti umani) sono legate per sottolineare che la violenza di genere è una violazione dei diritti umani.

Di seguito, parte del testo che ha lanciato la Campagna per il 2010.

Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario della Campagna “16 Giorni di Attivismo Contro la Violenza di Genere.” Anno dopo anno, nuovi soggetti si sono aggiunti alla “Campagna 16 Giorni” per portare il loro contributo alla conoscenza delle differenti forme di violenza commesse contro le donne, a livello locale, nazionale e mondiale. L’attenzione che la violenza di genere ha ricevuto è una testimonianza delle forti energie e delle efficaci mobilitazioni realizzate dalle attiviste e dagli attivisti per la protezione dei diritti delle donne nel mondo. Eppure, malgrado questa maggiore presa di coscienza, il numero delle violenze e degli abusi contro le donne è allarmante ed emergono, anzi, nuove forme di violenza. Noi, in quanto diffensore/i dei diritti umani delle donne, abbiamo la responsabilità di osservare più da vicino le strutture che permettono alla violenza di genere di esistere e persistere. Dopo diverse consultazioni con attiviste/i, organizzazioni ed esperte/i di tutto il mondo, il militarismo è apparso come la struttura chiave di perpetuazione della violenza.

Benché esistano diversi modi per definire il militarismo, la nostra definizione di base descrive il militarismo come un’ideologia che crea una cultura di paura e giustifica e favorisce la violenza, le aggressioni o gli interventi militari per risolvere conflitti ed imporre interessi economici e politici.

È un’ideologia che molto spesso ha conseguenze gravissime per la sicurezza delle donne e della società in generale. Il militarismo è un approccio caratteristico che influenza la maniera di osservare il mondo; cambia la percezione del prossimo, della famiglia e dell’intera vita pubblica.

Abbracciare il militarismo è dare per scontato che ognuno ha nemici e che la violenza è un mezzo efficace per risolvere i problemi. Non opporsi a questo modo di pensare miltarista implica il perpetuare certe forme di mascolinità, il lasciare che le gerarchie di potere restino al proprio posto, ed accordare l’impunità agli autori delle violenze contro le donne in tempi di guerra. Ridurre il militarismo significa ispirare idee più ampie su una sicurezza vera, significa accrescere la partecipazione delle donne alla sfera pubblica, e creare un mondo costruito su rapporti autentici di fiducia e cooperazione, e non sulla vendita competitiva delle armi.

C’è un bisogno urgente di affrontare la questione militarista in tutta la nostra società. Il militarismo non solo ha conseguenze materiali ed istituzionali, ma anche culturali e psicologiche, più difficili da misurare. Guerre, conflitti interni, e repressioni violente di movimenti di giustizia sociale e politica – che risultano tutti dalla cultura del militarismo – hanno un impatto particolare e spesso sproporzionato sulle donne. Lo stupro è usato come una tattica di guerra per creare paura e per umiliare le donne e le loro comunità. Ma la violenza sessuale è solo una delle forme di violenza che le donne e ragazze affrontano attraverso il continuum di violenza che esiste prima, durante e dopo l’apparente fine di un conflitto. Il militarismo non finisce né comincia in zone di guerra, né si limita alla sfera pubblica.

Anche regioni che non conoscono situazioni di conflitto diretto sono vulnerabili al militarismo; inviano truppe, producono e vendono armi, e investono nelle forze armate di governi stranieri piuttosto che nel sostegno agli sforzi di sviluppo. Questi governi hanno priorità distorte; spendono un’alta percentuale del loro bilancio in spese militari e in armi piuttosto che nei settori sociali come l’istruzione, il servizio sanitario, il lavoro e lo sviluppo, che permetterebero una vera sicurezza per le donne.

Per queste ragioni, il tema internazionale della Campagna 16 Giorni è:

Le strutture della violenza: definire le connessioni tra militarismo e violenza contro le donne.

Siamo coscienti che questa campagna non sarà facile da affrontare, e che molte attiviste e molti attivisti potrebbero essere esposti a reazioni negative e brutali per il loro lavoro. Il Centro per la leadership globale delle donne (Center for Women’s Global Leadership – CWGL) esorta le attiviste e gli attivisti a considerare la loro sicurezza con la massima attenzione mentre collaborano a questa campagna. Il CWGL continuerà a fornire risorse e informazioni generali:

http://www.cwgl.rutgers.edu


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La musica che fa tremare i dittatori

di Maria G. Di Rienzo

(dal blog lunanuvola)

“Questa è una raccolta di brani di artisti provenienti da tutto il mondo che hanno dovuto fronteggiare la censura o la cui musica è stata bandita. Questi artisti, ed altri come loro in differenti parti del mondo, devono avere il diritto di esistere e di esprimere liberamente i loro sentimenti e le loro opinioni attraverso la loro arte. Non possiamo permettere che la nostra libertà di espressione sia compromessa. La musica non dev’essere ridotta al silenzio.”

Così si presenta “Listen to the Banned” – http://www.listentothebanned.com/

Gli artisti che fanno parte del progetto sono stati censurati, portati in tribunale, imprigionati e persino torturati per una ragione molto semplice: la loro musica. Ci sono Mahsa Vahdat, la cui voce incredibile ha catturato l’interesse internazionale ma resta non udita dagli iraniani; Fahrad Darya, il simbolo del ritorno della musica in Afghanistan dopo la caduta dei talebani; Lapiro De Mbanga, il cantore della musica popolare che da vent’anni fa campagna per le riforme sociali in Camerun; Marcel Khalife, che i potenti del suo paese, il Libano, accusano di “blasfemia”; Chiwoniso Maraire, che si è permessa di criticare l’incompetenza, la crescente corruzione e la mancanza di libera espressione che piagano lo Zimbabwe; Tiken Jah Fakoly, un idolo per milioni di africani, che ha denunciato la corruzione politica nel suo paese, la Costa d’Avorio; Abazar Hamid, censurato in Sudan perché cerca con la sua musica di trasformare un paese in guerra con se stesso; e poi Kamilya Jubran, Kurash Sultan, Ferhat Tunç, Aziza Brahim, Haroon Bacha, Fadal Dey, Amal Murkus.

Le loro storie sono riportate nel booklet che accompagna il cd; Deeyah, un’artista che ha dovuto smettere di esibirsi a causa delle costanti intimidazioni e delle minacce fisiche, ha curato la collezione, che io consiglio caldamente a tutti/e.

Per il canale YouTube: ListenToTheBanned


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La politica dei calci

di Maria G. Di Rienzo

Vivere in un ambiente tossico, inquinato, devastato, non giova com’è ovvio ne’ alla salute del corpo ne’ alla salute della mente (distinguo i piani per comodità, ma lo stare bene di un essere vivente è in sostanza l’armonia dell’interazione fra essi). L’Italia di oggi è in senso metaforico e reale una gigantesca discarica di rifiuti nocivi: sono tossiche le relazioni sociali e quelle fra i generi, sono estremamente tossici i media e le loro “notizie”. In poche parole, non solo siamo ammalati, ma non stiamo facendo nulla per guarire: continuiamo ad accatastare spazzatura mortale nelle nostre esistenze, sperando di cavarci un guadagno, di distruggere chi ci infastidisce o ci contraddice, di scalare la montagna di immondizia nel mentre la rendiamo sempre più alta.

Ogni volta in cui persone che hanno un considerevole potere di manovra economico e/o politico scaricano le loro tonnellate di nocività nella vita sociale del nostro paese, io mi pongo la stessa trita domanda: “Sanno quel che fanno? Sono consci delle conseguenze?” E’ questione vieta, ma non da poco per chi desidera contrastare questo stato di cose. Se il mio oppositore è crudele, spietato ed egoista ma intelligente, riconoscerà almeno se nella sua azione c’è qualcosa che danneggia anche lui (e vi saranno maggiori probabilità che la sua azione cambi), ma se il mio oppositore oltre ad essere crudele eccetera è un idiota cercherà semplicemente di andare avanti sino alla rovina sua e mia.

“Nonviolento, non silenzioso”

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Motivi di coscienza

“Libertà”: e cioè il diritto dei fondamentalisti religiosi di discriminare chiunque altro.

di Amanda Marcotte per Reality Check, 3 agosto 2010, trad. e adattamento M.G. Di Rienzo

I contrari alla scelta, in materia di salute riproduttiva, hanno cominciato con il propagandare l’idea che i farmacisti non devono vendere contraccettivi se questo in qualche modo viola la loro viscerale repulsione per ciò che credono essere roba da donnacce. Ma qualcuno pensa ci sia fermati qui? Una volta diffusa l’idea che tu hai il diritto di non fare il tuo lavoro se disapprovi la vita sessuale di un tuo cliente, le porte si sono spalancate per ogni sorta di discriminazione nei confronti dei consumatori, seguite da sceneggiate da martiri se qualcuno insiste a chiederti di svolgere il tuo lavoro.

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I mondiali degli uomini

dal sito Maschile Plurale

http://www.maschileplurale.it/cms/index.php

Ovviamente sottoscrivo completamente.

https://i0.wp.com/www.maschileplurale.it/cms/templates/maschileplurale/images/header_short.jpg

Vogliamo rivolgerci agli uomini, e in particolare a tutti gli uomini italiani che attendono con trepidazione l’inizio del campionato mondiale di calcio in Sudafrica.

Migliaia di ragazze africane strappate nei mesi scorsi alle loro case e alle loro famiglie con la violenza, o con l’inganno e il ricatto vengono messe per strada  dalle organizzazioni criminali nelle città sudafricane che ospiteranno nei prossimi giorni le partite del mondiale.

Si tratta di un impressionante traffico di esseri umani provenienti dai paesi limitrofi al Sudafrica come il Mozambico, finalizzato allo sfruttamento forzato della prostituzione, dell’accattonaggio, della pedofilia e del turismo sessuale.

Come denunciano molte organizzazioni internazionali (U.E., Amnesty …) fenomeni analoghi caratterizzano da alcuni anni tutti i grandi eventi sportivi internazionali. Si calcola che ben 40.000 ragazze, tra le quali molte minorenni, furono trasferite con la forza in Germania dai paesi dell’est-Europa in occasione dei mondiali di calcio del 2006.

Anche in Italia ogni anno molte ragazze africane, sud-americane, est-europee etc. arrivano sulle nostre strade come schiave. Il meccanismo è lo stesso: vengono minacciate di morte insieme alle loro famiglie e costrette a prostituirsi per pagare il debito contratto con chi aveva promesso loro l’illusione di un lavoro in un paese più ricco, e quando si rifiutano, o non potendone più, cercano di scappare vengono picchiate e stuprate anche fino alla morte. Cinquecento sono state le donne vittime di tratta assassinate in dieci anni nel nostro paese.

A milioni (4 secondo alcune statistiche, 10 secondo altre), noi maschi  italiani continuiamo ad andare “a puttane”. Facciamo finta di non accorgerci che gran parte delle volte davanti a noi non c’è una persona che dispone liberamente del proprio corpo e della propria vita e che potrà spendersi quei soldi che le diamo come meglio crede, e così andiamo ad alimentare il mercato e il traffico di esseri umani, di organi, di armi e droga, rendendo sempre più violente e invivibili le nostre città e le nostre stesse vite. Un prezzo davvero troppo alto da pagare e far pagare!

Ma davvero disporre del corpo di una donna non libera è un esperienza appagante? Davvero abbiamo una percezione così misera dei nostri corpi e della nostra sessualità?

Siamo sicuri che solo con il denaro, il potere, la violenza possiamo ottenere quello che cerchiamo e desideriamo nella relazione con una donna (un uomo o una trans) e con il suo (loro) corpo?

A chi andrà in Sudafrica per i mondiali o a chi pensa di festeggiare una notte magica di vittoria o sfogare la rabbia di una sconfitta con un vero e proprio “stupro a pagamento” nelle strade delle nostre città, a noi, agli uomini tutti, chiediamo di aprire gli occhi e vedere quali sono le condizioni di vita che spingono tante donne e uomini a fuggire dal proprio paese illudendosi di trovare fortuna in un  paese più ricco, e trovando invece troppo spesso l’orrore, lo sfruttamento, la disperazione, la morte.

A tutti vogliamo dire che si può andare in Sudafrica (o godersi il mondiale in TV o per strada) e tornare a casa alla fine di una giornata di lavoro, di una partita, di un viaggio, senza diventare criminali o complici di tutto questo. Semplicemente rimanendo umani.

Maschileplurale

P.S. questa nostra presa di posizione è stato stimolata dall’articolo “Smarchiamoci dalla prostituzione” pubblicato sul sito noidonne.org da Layla Mousadel (del Coordinamento Nazionale Donne dell’Uisp) e da alcune donne, amiche e compagne femministe con cui abbiamo la fortuna e la gioia di essere in relazione. La frase conclusiva è stata ispirata dal grido di Vittorio Arrigoni lanciato da Gaza, “Restiamo umani!”


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Lotta alle discriminazioni e all’omofobia: la Lega non ci sta

https://i0.wp.com/www.maratonaomofobia.it/templates/rt_afterburner_j15/images/banner.png

Abbiamo presentato, in vista della giornata mondiale contro l’omofobia, un ordine del giorno a sostegno dell’iniziativa e di richiesta alle istituzioni nazionali e locali di attivarsi contro questo tipo di discriminazione.
L’ordine del giorno è stato presentato nella seduta del Consiglio Provinciale del 1 marzo 2010. In quell’occasione, vista l’ora tarda e la volontà di non affrontare una discussione superficiale, si era convenuto di approfondire il tema in commissione. Si è dunque svolta una commissione nella quale si sono a lungo dibattute le questioni connesse all’ordine del giorno.
L’altra sera al Consiglio Provinciale, prima di procedere alla discussione del documento, è stata sospesa la seduta in modo da permettere ai capigruppo di arrivare ad una formulazione condivisa apportando le modifiche al testo. I proponenti hanno accettato tutte le modifiche proposte dai capigruppo della maggioranza. In sede di Consiglio sono state poi avanzate da parte della maggioranza ulteriori richieste di modifica del testo, anch’esse accolte. Alla fine il documento è stato riformulato come ordine del giorno contro l’omofobia e contro ogni altra forma di discriminazione.
Nonostante questa totale disponibilità da parte nostra, al momento del voto la Lega ha compattamente votato contro il documento, il PDL si è diviso, l’UDC a favore, Movimento per le Autonomie ha votato contro.
Ha mostrato il suo vero volto una maggioranza dei Consiglieri della Provincia di Treviso più vicina evidentemente, su questo tema, alla cultura che domina nei regimi dell’Iran e dello Zimbabwe che ai valori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000/C 364/01) che all’articolo 1 recita: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”, e all’articolo 21 ribadisce: “E’ vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.

I Consiglieri della Provincia di Treviso

Luca De Marco, Stefano Dall’Agata, Stefano Mestriner, Marco Scolese


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Non mollare mai: incontro con Subhadra Khaperde

dal blog lunanuvola

(World Pulse, febbraio 2010, trad. e adattamento M.G. Di Rienzo)

Una donna Dalit, nello stato indiano di Madhya Pradesh, è l’eroina delle donne rurali, con le quali lotta per cambiare norme sociali oppressive. Insieme queste donne hanno vinto molte sfide, riuscendo ad esempio a veder riconosciuti i loro diritti alla terra e all’acqua.

World Pulse: Perché le donne, e perché ora?

Subhadra Khaperde: La storica femminista Gerda Lerner ha mostrato nel suo libro “Creation of Patriarchy” che le donne sono state le prime ad essere costrette alla subordinazione, e le ultime a capirlo. Sono le donne quelle che devono lottare più duramente, e devono farlo immediatamente, perché aspettare non ci porterà giustizia alcuna.

WP: Cosa significa crescere come donna Dalit nell’India rurale?

Subhadra: Le donne Dalit sono doppiamente oppresse, perché devono fronteggiare le discriminazioni nella società e l’oppressione patriarcale a casa propria. Io ho dovuto lottare con i miei fratelli per poter avere un’istruzione e, più tardi, per aver diritto alla proprietà. Persino nell’organizzazione in cui facevo lavoro sociale c’era discriminazione verso le donne, perciò ho dato le dimissioni e ho cominciato a lavorare per conto mio. Oggi devo lottare per i miei diritti con mio marito, con i professori che tengono i corsi che frequento all’università, e con le autorità statali.

Le donne non vengono considerate uguali agli uomini, si pensa che siano state create per lavorare, e sono soggette a punizioni fisiche e sessuali come se fossero schiave. Lasciando da parte lo stress psicologico, le donne finiscono per soffrire di anemia e di problemi inerenti la loro salute riproduttiva, come conseguenza di questo trattamento. Sia mentalmente sia fisicamente, la maggioranza delle donne conduce esistenze terribili.

WP: Qual è stato il tuo ruolo nell’assicurare i diritti alla terra, alla foresta e all’acqua per le donne di Madhya Pradesh?

Subhadra: Le ho organizzate affinché lottassero per i propri diritti. Ho scoperto molto presto che anche se ci sono leggi e politiche in favore delle donne, non verranno implementate sino a che le donne stesse non alzeranno la voce per chiederlo. Abbiamo fatto molti sforzi per migliorare la nostra condizione: abbiamo sostenuto scioperi della fame e io sono andata in galera assieme alle donne di Madhya Pradesh con cui avevo protestato contro l’ingiustizia.

Le tribù Bhilala di circa trenta villaggi hanno lottato insieme per riavere i loro diritti sulla terra. Le donne erano la prima linea. Eravamo noi ad avere a che fare con il personale del Dipartimento Forestale, e per averlo fronteggiato siamo andate in prigione. Dopo dieci anni di lotte abbiamo ottenuto “de facto” i diritti sulla foresta, ed ottenuto che essi vengano intitolati a moglie e marito insieme. Per la prima volta le donne Bhilala hanno titolo legale alla terra.

Queste stesse donne si sono organizzate in gruppi più piccoli per provvedere alla protezione della foresta accanto ai loro villaggi. Sono le foreste che loro hanno rigenerato, e che provvedono frutta e noci alle loro famiglie. Le donne vanno in giro a controllare che questi alberi non vengano tagliati. E le donne hanno anche costruito progetti di conservazione del suolo e dell’acqua, che migliorano la produttività agricola e quindi migliorano la vita dell’intera comunità.

L’aspetto più importante di questo movimento era far sì che le donne si organizzassero e fossero pronte a lottare e lavorare insieme. Una volta che ciò è accaduto, persino gli uomini hanno dovuto sostenerle, perché la ricompensa per le loro azioni ricadeva su tutti. Ci sono molti casi in cui questi uomini si assumono la responsabilità del lavoro domestico, affinché le donne possano partecipare alle azioni per i loro diritti umani, alla riforestazione comunitaria, ed al lavoro di conservazione di suolo ed acqua.

WP: Qual è la cosa più importante che hai imparato, come attivista per i diritti umani delle donne?

Subhadra: Che una non deve mai mollare, neppure di fronte alle difficoltà più pesanti. Lottare per la giustizia di genere è un compito ingrato, grazie all’enorme opposizione che viene dagli uomini, ma io continuerò il mio lavoro. E il futuro lo vedo luminoso, perché ad ogni giorno che passa, più donne lottano per i loro diritti.


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Stupidity Oscar: and the winner is…

di Maria G. Di Rienzo lunanuvola

Il capolavoro di idiozia riportato di seguito è arrivato alla mia casella di posta elettronica il 15.3.2010. Naturalmente non ho replicato, perché l’anonimato (la non assunzione di responsabilità) non merita risposta, e scrivo qui le mie considerazioni. Per carità di patria ometto il nickname completo dello scrivente, ma non i suoi errori di battitura o di ortografia/sintassi. Sono certa che se passa di qui si riconoscerà ugualmente. E spero, per il suo bene, che riesca a vergognarsi.

La posizione delle orecchie indica che il micio è leggermente scocciato

Ciao come stai?
Il mio nickname e’ R… 76 (se mi risponderai ti dirò il mio nome vero, ma mi sembrava più particolare usare uno pseudonimo, non per nascondermi ovviamente), comprendo benissimo cosa ti starai chiedendo.

Ma questo chi e’?
Lo conosco?
E’ uno scherzo?

La risposta e’ semplice: NO (nessuna delle ipotesi che avrai fatto e’ esatta)

Veramente un buon incipit: R… 76 è, innanzitutto, onnisciente. Sa cosa io penso, come mi sento, e che ipotesi faccio. Anche se non lo specificasse lui stesso nel “questo chi è”, si capirebbe benissimo che è un uomo. Complimenti. Se il “76” nel suo pseudonimo ha lo stesso significato del “59” nel mio indirizzo di posta elettronica, significa che questo soggetto ha 34 anni. Dall’infantilismo non li dimostra. Avrà capito che io ne ho 50 e che potrei essere sua madre? Continua a leggere